Alessandra Sarchi, il destino della solitudine

3 Maggio 2024

Sara ha quasi cinquant’anni. Ha un impiego non brillante ma sicuro, un compagno sensibile e comprensivo, una figlia intelligente e emancipata. Ma il suo equilibrio è insidiato da un senso di inutilità, che dipende in parte dal trascorrere del tempo, in parte dalle occasioni mancate, in parte da circostanze imprevedibili. La figlia Nina, combattiva militante ambientalista, è andata a studiare in Germania, dove non esita a esporsi ad alcuni rischi. Come sempre accade, nella vita dei genitori si aprono spazi inattesi, che Sara non era preparata ad affrontare. Quando Monica, la direttrice della biblioteca dove lavora, porta in ufficio i suoi nipotini (cinque e tre anni), Sara si sorprende a invidiarla. L’evento dirompente è la scoperta di una forma di cancro, che renderà necessaria l’asportazione dell’utero. La malattia viene curata con successo, ma l’impatto emotivo è forte e durevole: Sara si sente, in tutti i significati della parola, svuotata. Di qui la decisione di adottare un figlio. Un ostacolo inaspettato – il fatto che lei e Paolo avevano risolto di non sposarsi – la induce a ripiegare sulla soluzione dell’affido: come prevedibile, viene loro assegnato un bambino non piccolissimo. Pietro ha sette anni. Il suo aspetto è angelico, ma il passato difficile ha lasciato in lui cicatrici profonde. È introverso, diffidente, silenzioso; reagisce con freddezza alle manifestazioni di affetto; in lui cova una rabbia segreta che dà spesso luogo a esplosioni di aggressività. Sara si rende conto che nel desiderio di ridare un senso alla sua vita l’ha terribilmente complicata.  

Gli aspetti di interesse dell’ultimo romanzo di Alessandra Sarchi, Il ritorno è lontano (Bompiani, 2024, pp. 232) sono molteplici. Innanzi tutto, dalla storia emerge un efficace confronto tra donne di diverse generazioni. La madre di Sara, Vittoria, ha vissuto gli anni eroici della contestazione e delle storiche battaglie femministe, da cui ha riportato un senso di pienezza e sicurezza di sé. Per Nina la lotta contro il cambiamento climatico e la distruzione delle foreste è diventata una ragione di vita; quando il movimento ecologista di cui fa parte viene preso di mira dai gruppi neonazisti, non arretra di un passo. Sara, invece, appartiene a una generazione «che aveva accettato di essere pieghevole, flessibile, paziente, fino a non essere altro che una massa polverizzata, che litigava sui social e si evitava per strada». Il risultato è che «aveva passato la sua vita adulta a sentirsi inadeguata, mentre sua madre e sua figlia, al contrario, erano convinte che fosse il mondo così come era costruito a essere ingiusto, e che fosse ora di cambiarlo». Nell’unica foto che Sara ha della madre da giovane mostra una somiglianza con la figlia «quasi disturbante». 

La decisione di prendere un bambino in affido, ritrovando le emozioni della maternità in un contesto intrinsecamente problematico, nasce da un’esigenza sincera, ma finisce per assumere anche i connotati di una rivalsa nei confronti della generazione precedente: «Finalmente stava facendo qualcosa che sua madre poteva trovare avventuroso, che addirittura definiva, con disappunto, mettersi nei guai. Non era forse quello che Vittoria si era sempre vantata di aver fatto: mettersi nei guai e sapersela cavare? Non era quello che tutti volevano dimostrare di saper fare, risolvere un problema e cambiare la piccola sfera intorno a sé che ognuno chiama mondo?». In realtà l’arrivo di Pietro complica ogni cosa. Il rapporto fra Sara e Paolo non ne trae beneficio, anche se sembra reggere le avversità. Nina deve superare qualcosa di simile a una crisi di gelosia, e fare i conti con un problema che, per una volta, non riguarda l’ambiente o il pianeta, ma una piccola sfera privata. Gli episodici interventi di Vittoria non sono inutili, ma nemmeno risolutivi. Nulla sembra scalfire l’anaffettività del piccolo Pietro, catafratto dietro una barriera di astiosa sfiducia nel mondo adulto, apparentemente capace di interagire con gli oggetti – vegetali compresi – solo distruggendoli.   

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I presupposti per uno sviluppo della trama in senso melodrammatico ci sono tutti. Ma l’autrice se ne tiene accuratamente alla larga, così come evita ogni facile soluzione romanzesca. Nessun evento clamoroso, nessuna accentuazione retorica, nessuna scena madre; la stessa chiusa del romanzo, pur caratterizzata da una situazione di estremo pericolo – accampati in tenda in un bosco, i quattro protagonisti, Sara, Paolo, Nina e Pietro, vengono sorpresi da un incendio notturno – è ammirevole per la sua prosaica moderazione. Il finale – e quindi, possiamo dire, il senso del romanzo – è più aperto che mai. Pietro dà un segno (uno solo) di apertura, ma il futuro è impregiudicato, e tutto da costruire. Nulla garantisce che le cose siano destinate a migliorare con il tempo. D’altro canto, non c’è dubbio che ognuno dei personaggi abbia avuto l’opportunità di conoscersi meglio, di mettersi alla prova; e, in fondo, ognuno ha saputo far fronte a uno stress test tanto arduo quanto inatteso. 

Il titolo del romanzo, Il ritorno è lontano, è tratto da una poesia di Franco Fortini, Canzone per bambina, da Foglio di via (1946), di cui sono citati in epigrafe quattro versi: «Di pomeriggio il bosco /Fa l’incanto del sonno. /Il riposo è profondo /Il ritorno è lontano» (vv. 22-25). Ecco il seguito: «E quando ti ridesti /Tutto è notte sul mondo /Non hai più compagnia /Non c’è lume né via /E tu sei senz’aiuto…//Guarda che sia mattina /Quando tu vai per funghi». Il distico finale riprende specularmente l’incipit: «Quando tu vai per funghi /Guarda che sia mattina». Questo mi pare il miglior commento al romanzo di Alessandra Sarchi. I tempi sono difficili, per l’umanità in generale come per i singoli. La solitudine è un destino a cui non si può sfuggire, specialmente quando si prende coscienza della fragilità del proprio corpo. Se qualche aiuto lo si può trovare, è soltanto dopo che si sia accettata l’idea che occorre cavarsela da soli. Dopodiché, certo, non sappiamo se Pietro, crescendo, riuscirà a conquistare un minimo di serenità e di equilibrio; né quale esito avrà l’accanito, disperato impegno di Nina in difesa dell’ambiente (anche se, strada facendo, si è resa conto di potersi intendere con Gregor, figlio del padrone di una miniera). Non sappiamo se la nuova maternità di Sara risulterà, un giorno, appagante; a rigore, non sappiamo neppure se la sua guarigione sia definitiva.  

Tuttavia qualcosa di importante è avvenuto: qualcosa che non possiamo sintetizzare se non a prezzo di un bisticcio. Sara, che nella sua vita ha scelto spesso (troppo spesso?) di fidarsi – «Deve avere fiducia» è anche la frase che le dice la dottoressa – ha deciso, con la scelta dell’affido, di sfidare il destino. Questa, comunque vadano le cose, è già una vittoria. E forse un avvicinamento definitivo con la figlia – sia esso prossimo, remoto, postumo – avverrà sul piano della consapevolezza che difendere gli alberi e prendersi cura dei bambini sono azioni complementari ed egualmente necessarie. Il ritorno è lontano, ma il cammino prosegue.  

Ciò vale anche, e a maggior ragione, per Nina, che ha nel romanzo uno spazio di poco inferiore a quello di Sara, e che si può considerare il primo personaggio della nostra letteratura a vivere con piena consapevolezza l’emergenza climatica. In ogni gesto, in ogni piccola scelta quotidiana Nina cerca di attenersi a principî di rispetto ambientale. La speranza, come tutti sappiamo – o la scommessa – è superare la dimensione simbolica, trasformando un comportamento individuale in un’iniziativa davvero efficace sul piano ecologico. Questione di numeri, ovviamente: un singolo non cambia nulla, ma cos’è una popolazione se non un insieme di singoli? Sul piano letterario, il problema è come sottrarre la caratterizzazione del personaggio al rischio di farlo apparire, al di là delle intenzioni, un tantino monomaniaco; e qui è in gioco la forma stessa del romanzo, nata per inscenare conflitti – per dir così – locali, sia sul piano delle relazioni sociali, sia riguardo al rapporto con la natura. In questo campo, è d’obbligo il rinvio a Amitav Ghosh, in particolare alle riflessioni contenute nel volume La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (Neri Pozza, 2017).

Per quanto riguarda il romanzo della Sarchi, fondamentali nell’economia narrativa sono i capitoli in cui vediamo Nina impegnata a contrastare la decisione di un comune tedesco di sacrificare alcuni ettari di foresta. La manifestazione dei militanti ecologisti si scontra con gli interessi contingenti degli abitanti del luogo: in sostanza, sono proprio i potenziali beneficiari di una scelta lungimirante a rifiutare un cambio di mentalità. Quale orizzonte temporale conviene assumere, quando si tratta di prendere decisioni che investono l’ambiente? Anche per Nina, insomma, la strada è lunga. Nel frattempo, non possiamo non constatare che, a dispetto di recenti diatribe su scrittori e scrittrici e su novel e romance (viziate da equivoci su cui ha fatto chiarezza l’impeccabile intervento di Chiara Fenoglio), se c’è un tratto che distingue le scrittrici dagli scrittori è proprio una più diffusa propensione alla concretezza realistica.    

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